Madonna Pellegrina 1949

La Madonna Pellegrina del 1949 per mappare le fabbriche

Un laboratorio archivistico per riscoprire la “Peregrinatio Mariae”

Nella prima settimana di luglio, a Oropa, si è svolta la summer school organizzata dalla Rete Archivi Biellesi in collaborazione con Camera Centro Italiano per la Fotografia di Torino e con il sostegno della Regione Piemonte nel contesto del progetto Tessuto Storico Biellese (quinta edizione). Non un corso di formazione, ma un laboratorio in un archivio attivo come quello del Santuario di Oropa. Otto “summerschoolisti” provenienti da Torino, Milano, Roma, Vicenza, Casale Monferrato e Ancona, con alcuni biellesi, hanno preso parte a un’esperienza comune di scoperta non tanto dell’archivio in sè, quanto piuttosto delle possibilità di valorizzazione dell’archivio a partire dalla sua consapevole organizzazione. Il gruppo è stato guidato da Barbara Bergaglio di Camera e da Danilo Craveia, archivista del Santuario di Oropa. Nello specifico, la “classe” ha affrontato il patrimonio fotografico storico del Santuario di Oropa e, in dettaglio, il fondo di immagini relative alla “Peregrinatio Mariae” del 1949. Con l’analisi di quelle migliaia di fotografie si è ottenuta una mappatura iconografica digitale (oggi su archivitessili.biella.it prossimamente su www.retearchivibiellesi.it) del tragitto compiuto dalla Madonna Nera in relazione agli stabilimenti industriali (tessili e non) toccati da quello straordinario pellegrinaggio.

La Peregrinatio Mariae

La “Peregrinatio Mariae” è stata il più grande avvenimento popolare (oltre che devozionale) della storia del Biellese. La Vergine Bruna, scesa da Oropa per la prima volta in quel 6 marzo del 1949, ha fatto produrre un numero enorme di immagini fotografiche e di metri di pellicola consegnandoci un documentario (neo)realista di eccezionale valore. La città e le valli e la piana, da Croce Serra a Buronzo (e Vercelli, per una settimana fuoriprogramma), da Viverone a Portula, la Madonna di Oropa ha visitato tutto il Biellese, parrocchia per parrocchia, in sei mesi di viaggio. Ogni comunità, che fosse Biella o il villaggio più minuto, ha accolto il Simulacro oropeo nei suoi spazi pubblici (la chiesa, la piazza, la strada, la scuola, la casa di riposo, l’ospedale), ma anche in quelli privati. E, soprattutto, nelle fabbriche. Perché le fabbriche, allora, erano quanto di più biellese ci potesse essere. Seguire oggi quel pellegrinaggio a ruoli invertiti permette di entrare di nuovo in quella grande fabbrica che era il Biellese di allora. In quell’unico gigantesco lanificio che era la sommatoria di tanti stabilimenti diversi, ma analoghi e contigui. La linea degli spostamenti della Statua definisce il susseguirsi dei vari “reparti” di quella immensa fabbrica, il loro ripetersi, il loro sovrapporsi in senso geografico. E delimita il campo mentale con due coordinate primarie: la persistenza, o meno, di quelle fabbriche e la loro dimensione umana. Quello era ancora il tempo delle masse di operai che popolavano le fabbriche, fabbriche che oggi vivono ancora, ma con una popolazione ben più rarefatta, o che hanno mutato destinazione d’uso, oppure che non esistono più. Il paesaggio antropico è mutato, così come è mutato quello architettonico e urbanistico, e le fotografie della “Peregrinatio Mariae” lo attestano nitidamente. Certo, alcune strutture produttive all’epoca non erano ancora state edificate, ma nel complesso si è assistito a una riduzione o, quanto meno, a una loro diversa localizzazione verso la piana che, però, ha lasciato dietro di sé non pochi residui. La densità costruttiva delle vallate è stata rapidamente trascinata a valle, come se la corrente dei torrenti avesse mosso quegli stabili, cambiandone la forma in capannoni prefabbricati e disperdendoli fino alle sponde delle risaie.

La Madonna nelle fabbriche

La cospicua raccolta di immagini conservata nell’Archivio Storico del Santuario di Oropa restituisce il Biellese delle fabbriche ancora fortemente connotato dai suoi retaggi ottocenteschi. E non solo nelle linee architettoniche e nella concentrazione della forza lavoro, ma anche nei macchinari e nelle strutture di supporto. Più ancora nei volti delle persone: le facce della “Peregrinatio Mariae” sono facce antiche, facce ancora rurali malgrado tre/quattro generazioni di fabbrica le abbiamo precedute. Quei volti si scorgono osservando le piccole e grandi folle che la Madonna Nera coagula intorno a sé. Un punto del Biellese si ferma, quella particolare fabbrica si ferma, e non è poca cosa per chi aborre la stasi dei meccanismi, stasi che è “non produzione”, come a dire perdita. Tuttavia, quando giunge Lei, i reparti si dissanguano e tutto il sangue di quell’organismo, tutta la sua potenza, tutta la sua intelligenza, si accumula in un’area ristretta. Basta l’automezzo con la Statua nel piazzale di carico/scarico, basta la Statua trasportata a spalle in uno dei saloni dove, a volte, si nota un piccolo altare con qualche semplice decorazione, o le stesse macchine inghirlandate per ingentilire un ambiente che appare per quel che è: duro. La visita non si protrae a lungo, perché le tappe del viaggio sono tante, ma in quei momenti l’Eterno e il quotidiano si sfiorano sulla soglia della fabbrica. È come un respiro trattenuto, fatto di silenzi, di preghiere, di voci, di applausi, di segni di croce, di mani giunte, di rosari sgranati, di sguardi rivolti in alto. Per la maggior parte di quegli operai e impiegati e titolari quella è la prima volta della Statua in tre dimensioni. Nella nicchia del Sacello la Statua non è che una figura bidimensionale. Invece lì, in quel fiato sospeso, la Statua ha una profondità: da immagine diventa oggetto. La teca di “vetro aeronautico” che La protegge ne preserva una ossequiata intangibilità. I bimbi, alcuni sono lì, con i genitori, in fabbrica per l’occasione, baciano il plexiglass ed è il massimo della prossimità. Poi il respiro riprende. La fabbrica è tornata a pulsare in ogni suo angolo. I suoi rumori abituali salutano il corteo che si allontana. La “Peregrinatio Mariae” ha esplorato un Biellese-fabbrica di densità e pienezza. Allora non c’erano stabilimenti vuoti e, tanto meno, diroccati e/o ripresi dalla boscaglia. La produzione saturava le superfici e gli spazi, le macchine riempivano, le persone riempivano, le materie prime, i semilavorati, i prodotti finiti riempivano.

La ripresa delle fabbriche dopo la guerra

Il 1949 è stato il primo anno di vera (per quanto timida) ripresa produttiva dopo la guerra. L’innesco del boom economico è lì a venire, a pochi mesi. Ora, nel tempo del vuoto di azione e di senso, si osserva con stupore il gigante Rivetti, ritratto allora colmo e forte, con le sue maestranze assiepate appena oltre le cancellate di via della Repubblica. Con curiosità si nota come il Lanificio Giovanni Garlanda di via Cottolengo abbia avuto, in altri momenti storici, un aspetto diverso e un differente impiego. Al passaggio della Vergine Bruna era una fabbrica, una sola, non un capannone di piccoli artigiani, officine e uffici in open space. La traccia più tipica della “Peregrinatio Mariae”, il tondo di terracotta di Ronco (smaltato o meno) che si nota su tante facciate della città e dei paesi, c’è anche nel dismesso Lanificio Fratelli Bertotto, sulla sponda dell’Oremo. Quando fu applicato quel segno del transito lo stabilimento “girava in pieno”. In una fotografia della “Peregrinatio Mariae” scattata a Pray, lungo via Bartolomeo Sella, sullo sfondo fuma ancora la ciminiera del primitivo opificio Trabaldo Pietro Togna. La ciminiera di mattoni svettava con la “M” appesa sull’ingresso della Filatura Pettinata e Tintoria Ettore Barberis di Candelo, della quale rimane ben poco. Chi lo avrebbe detto, all’epoca? Chi avrebbe osato pronosticare la fine di quel mondo? L’antica conceria Cantono, attiva dal Seicento sulla strada tra Biella e Andorno (appena prima del ponte sul Nelva, quello del “Peo”), non può accogliere il mastodontico autocarro. Così nel cortile interno la Statua accede a forza di braccia. Lo stabile esiste ancora e mostra dettagli di sobria nobiltà, ma un negozio ha sostituito le macchine per il cuoio e la pelle. Orditoi Cerrone e telai Nebiolo-Schönherr accolgono la Madonna Nera sotto gli shed dei Faudella, a Pavignano. Nulla è rimasto in attività di quella fabbrica di panni. Eppure, nel 1949 c’era una piccola folla di uomini in giacche troppo larghe e donne dal capo coperto, gli operai e le operaie che avevano, per un’ora (forse meno) interrotto la loro preghiera feriale di navette e di nodi per recitare le preghiere della festa, quelle della messa. E c’era una piccola folla anche sullo stradone di Ponzone, di fronte al moderno stabilimento della Trabaldo Quirico, mentre uno dei titolari, bello come un attore americano, firmava la sua offerta per la “Peregrinatio Mariae” nelle mani di don Dotto, uno dei preti pellegrini. Oggi l’architettura pulita e razionale dello stabilimento è un guscio svuotato. A Cossila, mentre la processione passava diretta a Oropa per riporre la Venerata Effige nel Sacello, le “ramme” dei Gilardi sembravano un vigneto in attesa dei tralci, ma su quegli stenditoi sarebbero state appese le pezze ad asciugare. Ora non più.

Le fotografie della Peregrinatio Mariae testimoni di un’epoca

Le fotografie della “Pereginatio Mariae” non sono l’amarcord dei bei tempi andati, ma sono il testimone più fedele di un’era di mezzo scomparsa, tra la modernità ben consapevole del recente passato e fin troppo fiduciosa in un infinito futuro, e la postmodernità fin troppo sfiduciata del presente, ma senza rispetto per il passato e priva di slanci per il futuro. Le fabbriche di maggior peso sono diventate un peso. La Manifattura Italiana di Scardassi (già Maglificio Calliano) lungo il Bolume non è altro che un involucro. Che cosa hanno visto gli occhi della Madonna d’Oropa nel 1949 e nel 2019 quando è scesa di nuovo dalla conca? Un Biellese di facciate e di facciata, come quella della Filatura Biellese di Gaglianico? In realtà questo territorio ha perso molto del suo contenuto, ma è stato anche capace di sintetizzarsi e di trasformarsi, di evolversi aumentando ancora la sua densità. Il cammino della Pellegina del 1949 va riscoperto, valorizzato e, soprattutto, ben conservato, assicurando la memoria della sua rappresentazione.

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