La terza volta, l’unica volta, la Regina dei monti di Oropa accolse i reali di Sardegna. Domenica 27 agosto 1820, re Vittorio Emanuele I, la consorte Maria Teresa d’Asburgo-Este, tre delle loro quattro figlie, nonchè Carlo Felice, suo successore e la di lui moglie Maria Cristina di Borbone-Napoli, transitando da Biella raggiunsero la conca oropea per assistere alla solenne cerimonia di incoronazione e inginocchiarsi di fronte alla Sovrana. Non è accaduto nel 1920 e, probabilmente, non accadrà più: nessun altro Savoia regnante sul Piemonte o sull’Italia avrà modo di prendere parte all’avvenimento. Nel 1820 quei Savoia celebravano a loro volta il primo secolo di regno sulla Sardegna e, soprattutto, potevano celebrare di essere appena tornati sul trono dopo essere stati spodestati da Napoleone.
I biellesi, dal canto loro, avevano ragione di gioire per il restaurato assetto istituzionale e per il ritorno del vescovo nella sua sede cittadini dopo che la Diocesi di Biella, nata nel 1772, era stata soppressa dallo stesso Corso. Più ancora, a Oropa si doveva, poteva e voleva riconoscere alla Madre Celeste, l’altrettanto celeste merito di aver preservato il santuario dall’essere demanializzato, statalizzato, venduto e trasformato in ospizio laico, scuola alpestre e, forse, lanificio in quota alla maniera della Trappa. A quel punto, scampato il pericolo e riportato l’ordine, incoronare la Venerata Effige era più importante di tutto quanto era avvenuto e la Congregazione Amministratrice del Santuario di Oropa, che non voleva mancare alla consegna del “non c’è il due senza il tre”, mise in moto la macchina della Terza centenaria Incoronazione.
A proposito di macchine, non poteva mancare nemmeno la “machina”, ovvero quell’apparato architettonico in grado di elevare, anzi di sopraelevare la Statua in modo che tutto il popolo dei devoti potesse vederla bene. L’architetto Nicola Martiniano Tarino (1765-1829) calcò le orme del grande Juvarra, attivo cent’anni prima, e lo superò per magnificenza allestendo il grandioso palco esterno direttamente sopra la manica meridionale del chiostro. Sul tetto dell’ala porticata fu innalzato un altare straordinario (rimosso poi nell’autunno) su cui salirono il vescovo Bollati e tutti gli illustrissimi ospiti.
Nel cortile e nei dintorni, quella domenica di bel tempo, 100.000 persone vissero un’esperienza indimenticabile, dopo che 15.000 di loro avevano già trascorso la notte nelle camere del santuario, ma più che altro sotto le volte dei portici o sui prati, sotto le stelle. Alla fine dell’ottavario almeno 300.000 devoti (tra cui gli amici vallesani di Fontainemore) avevano dimostrato la loro Fede tributando affetto e preghiere alla Madonna d’Oropa. La scenografia, gli immancabili fuochi artificiali, i canti e la musica, la ressa dei fedeli e le cerimonie affollate, non avevano tolto misticismo e poesia al cuore pulsante della religiosità biellese.
Libri e opuscoli lo attestano, confermando le doti di versatori già noti o svelandone di insospettabili. Giovanni Antonio Poggio, segretario della Civica Amministrazione di Vercelli, dedicò per l’occasione quattro canti all’arcivescovo di Vercelli, monsignor Grimaldi. Fu composta una raccolta di vari componimenti in versi detta “Panierino di poetici fiori raccolti sul biellese Parnaso”. Scrisse poesie anche il professore di filosofia Giovanni Agostino Florio, e don Fecia compose ben 89 sonetti, e numerose furono le terzine di Giuseppe Bellingeri. E si conoscono anche due relazioni in prosa: il “Ragguaglio” di Modesto Paroletti del 1820 e quella anonima attribuita a don Tagliotti del 1821.