1620-1621: accadde allora: piccole storie ai tempi delle Incoronazioni…
Il quartarone è un’antica unità di misura utilizzata per gli aridi (cioè materiali secchi ma di minime dimensioni, come i cereali o le farine). L’equivalenza con il Sistema Metrico Decimale indica che un quartarone (o quarterone) corrispondeva a due emine, ossia a circa 46 litri, ovvero altrettanti chilogrammi rapportati al peso dell’acqua.
Difficile stabilire quanto potesse valere tale quantitativo di segale ai tempi della Prima Incoronazione, ma in questa storia di devozione alla Vergine Bruna di Oropa non conta il valore pecuniario, bensì quello del gesto di un uomo che voleva dimostrarsi riconoscente.
Il 16 agosto 1619, quindi un anno in anticipo sulla grande celebrazione del 1620, “nel finaggio di Biella et nella Chiesa della Madonna Santissima del Europa”, due illustri biellesi, cioè Francesco Mondella di Biella e Giovanni Battista Macia del Mortigliengo, accolsero Giacomo d’Ubertino “o sia Rossi” di Settimo Vittone. Con loro c’era il notaio Carlo Antonio Lavezino di Biella. Si trattava, infatti, di redigere un atto pubblico di censo, come a dire uno strumento di debito annuale perpetuo, che avrebbe legato non solo Giacomo, sua vita natural durante, ma anche i suoi eredi e successori.

Eppure, l’uomo che viveva sulle sponde della Dora Baltea all’imbocco della Valle d’Aosta non aveva ragione per accollarsi quell’onere e per impegnare la sua progenie all’infinito. O, meglio, nessun motivo pratico. In effetti, non doveva denaro né altro alla Madonna d’Oropa. Ma ugualmente si sentiva in dovere di manifestare la sua riconoscenza. Così, spontaneamente, ipotecando “una sua pezza di terra prato con arbori di castagna con una casa coperta di pianelle et una casina indetta pezza di terra essistenti et per tanta quanta et scitta nelle fini di Settimo Vittone et dove si dice in Chiavanella” (lungo una non meglio identificata “via pubblica”), Giacomo d’Ubertino si obbligava a somministrare un quartarone di segale o il corrispondente valore alla “Chiesa della Santissima Madonna”.

Ogni anno a venire. Il giorno di San Martino, quello dei traslochi, l’11 novembre. Se non avesse mantenuto la promessa o se qualcuno dei suoi figli, nipoti ecc. fosse venuto meno al patto sottoscritto, il Santuario di Oropa sarebbe stato nelle condizioni legittime di entrare in possesso dei beni ipotecati. Forse quel mezzo quintale scarso di cereale non rappresentava un grande obolo né uno sforzo economico così gravoso, ma il devoto Giacomo avrebbe potuto farne a meno, no? Forse no. Sicuramente no. Altrimenti avrebbe davvero compiuto il viaggio fin quassù, ingaggiato testimoni e tabellione, e stipulato un simile contratto?
Per quanto simbolico potesse essere in concreto, quel documento conservato nell’Archivio Storico del Santuario di Oropa testimonia una volontà forte e precisa. Giacomo d’Ubertino voleva che la Vergine Bruna ricevesse il segno tangibile della sua fede, anche sotto forma di segale. L’abate Ottavio Bertodano, grande architetto della Prima Incoronazione e amministratore oculato, accettò di buon grado. Chissà se all’epoca aveva già in mente il “progetto” poi realizzato di lì a dodici mesi? In ogni caso poteva contare anche su un buon numero di pagnotte scure e nutrienti che da quella segale si potevano ricavare, magari macinandola in uno dei mulini del santuario. Un pane benedetto, senza dubbio, che il generoso d’Ubertino aveva voluto provvedere alla Madonna d’Oropa “per molte gratie per mezzo di essa ricevute et ancora in remisione del anima sua”.

Danilo Craveia, archivista del Santuario di Oropa